Un fatto

Un fatto

Il padre, 43 anni, ingegnere, universitario, chiude la portiera e sale in facoltà. È mattina, è ora di correre a lavoro, il pensiero è tutto lì. Il piccolo, 2 anni, è addormentato. Rimane lì, in macchina. La tragedia è nota, inutile ribadirla.

La reazione ad eventi di questo tipo non può essere sicuramente espressione di un giudizio morale sul fatto e sulla persona, ma non è necessario scomodare la scienza pura per constatare che dimenticare un bambino di due anni in macchina non è un comportamento sano. D’altra parte, l’accadimento di questi fatti, sebbene non sia così frequente, suscita profonde perplessità o addirittura angosce, per l’apparente inspiegabilità e imprevedibilità e per la persistente assenza di risposte esaurienti e convincenti da parte degli specialisti competenti, delle istituzioni scientifiche e politiche e della cultura in generale.

L’assenza è, prima di tutto, un’assenza di ricerca e conseguentemente, di conoscenza, di sapere.

Gene Weingarten, un giornalista americano del Washington Post, ha preso il premio Pulitzer per la sua inchiesta sul fenomeno dei bambini morti per ipertermia dopo essere stati abbandonati in auto (*). Weingarten ha ricostruito la storia di diversi genitori che hanno vissuto questo tipo di tragedia ed ha raccolto una serie di dati in base ai quali si stima che dal 1998 al 2017 sono oltre 600 i minori vittima di ipertermia causata dall’abbandono in auto. A causa di una tale incidenza e gravità degli eventi, le istituzioni si sono attivate con l’approvazione di una legge per l’adozione obbligatoria di dispositivi “anti-abbandono”, dai seggiolini tecnologici alle app dello smartphone. Tuttavia rimane ancora un alone di mistero sul fatidico “blackout temporaneo della mente”, così lo chiamano i giornali, o “amnesia dissociativa” per i più colti.

Questo aspetto è particolare: sebbene i tentativi di spiegare questi fatti siano molteplici, variegati e spesso contraddittori, nell’attesa di capirci qualcosa, gli amministratori della cosa pubblica si attivano per dare delle risposte, quanto meno pratiche, che proteggano la vita dei piccoli. Clip di chiusura del seggiolino connesse ad una app dello smartphone, sensori di peso collegati con i contatti della chiave dell’auto, cuscini intelligenti sensibili al peso ed alla distanza del genitore. I sistemi preventivi concretizzano l’ingegno dei produttori di accessori per bambini, con un costo medio di 70 euro, variabile a seconda della complessità. In Italia la legge impone l’acquisizione di questi strumenti dal 1° luglio 2019, con sanzioni amministrative per gli inadempienti che, per i recidivi, arrivano fino alla sospensione temporanea della patente.

La prima volta che ho visto la pubblicità informativa del ministero su questi seggiolini intelligenti è stata lo scorso anno. Era estate, durante una tappa del viaggio in Calabria con mia figlia. La sensazione particolare fu una sorta di strana indecifrabilità: lo strumento veniva presentato come fosse una cintura di sicurezza, utile, anzi fondamentale per evitare una specie di incidente.

Un incidente?

Un incidente ha un elemento di casualità e di imprevedibilità totale.

Weingarten riporta le affermazioni di un fisiologo molecolare dell’università di South Florida, il prof. David Diamond, secondo cui “la memoria è una macchina, ma non impeccabile, la nostra mente cosciente dà la priorità sulla base dell’importanza, ma a livello cellulare non è così. Se sei in grado di dimenticare il tuo cellulare, potenzialmente sei in grado di dimenticare tuo figlio”.

La confusione regna sovrana e, sono certo, semina terrore. Sono moltissimi infatti che si domandano: e se capitasse a me?

In una società in costante accelerazione, dove lo stress e la competizione si respirano insieme al poco ossigeno rimasto, le persone sembrano accontentarsi della più semplice delle deduzioni logiche, di un banale sillogismo: se a lui è accaduto per lo stress, anche io sono stressato, quindi può accadere anche a me, può accadere a chiunque.

Weingarten nella sua inchiesta riporta a sostegno di questo pensiero le affermazioni di James Schlothauer, il capo giurato al processo di Raelyn Balfour, una donna processata per la morte del figlio per ipertermia. Schlothauer, dopo aver espresso il verdetto unanime di non colpevolezza della donna, ha ribadito la complessità del caso e la durezza dell’incidente, sottolineando il fatto che avrebbe potuto capitare a chiunque.

Interessante osservare che, Weingarten, con la sua professionalità, non si limita alle affermazioni degli intervistati, ma cerca di capire meglio, facendo emergere che, sia il prof. Diamond, sia il funzionario statale Schlothauer, hanno vissuto situazioni personali simili a quelle che hanno valutato, che per loro fortuna (stavolta sì, si può dire) finite non in tragedia.

Eppure le statistiche parlano chiaro: accade ai ricchi, ai poveri, alla classe media; accade a entrambi i genitori, di qualsiasi età ed etnia; accade a chi è cronicamente distratto ed a chi è ossessivamente organizzato; accade ai laureati ed a chi è marginalmente alfabetizzato. Weingarten racconta che, negli ultimi 10 anni è successo a un dentista, ad un impiegato delle poste, ad un assistente sociale, ad un ufficiale di polizia, a un commercialista, a un soldato, a un tirocinante legale, a un elettricista. Ma anche a un pastore protestante, ad uno studente rabbinico, a un’infermiera, a un consulente per la salute mentale e a un docente universitario, così come ad un pizzaiolo.

Come provare a capire? Non ci sono classificazioni che permettono appigli ragionevoli. Esiste una possibilità di paragone? Che so, quando sto giocando a tennis ed ho il sole in faccia posso non vedere la pallina che arriva? Oppure è come quando sto cucinando e squilla il telefono, mi concentro sul discorso e mi dimentico l’arrosto sul fuoco che si brucia?

Difficile comprendere.

Il rapporto che l’essere umano ha con le “cose”, è dello stesso tipo di quello che ha con le persone? È come dice il prof. Diamond, per cui se mi dimentico il cellulare posso anche dimenticarmi mio figlio?

Eppure il buon senso ci suggerisce che dimenticare un bambino di due anni in macchina non può essere un comportamento normale, diciamo pure “sano”. Di che si tratta?

Nessuno si azzarda a parlare di malattia.

Perché non si tratterebbe di cefalea, di Alzheimer, di autismo, di ischemie cerebrali.

Si tratterebbe di malattia mentale. Cioè di quella condizione patologica che colpisce solo gli esseri umani e che può rompere il rapporto affettivo con i propri simili, rendendoceli semplici oggetti come altri, come una borsa, uno straccio, una bottiglia vuota. Un cellulare, appunto.

Ma non è una colpa.

Una persona, in condizioni di fragilità e di isolamento, evidentemente può ammalarsi.

È difficile capire se non si scava nelle storie personali, nei vissuti individuali. Tutto si appiattisce alla mera fotografia dei fatti che, inevitabilmente, rimangono incomprensibili.

Poi naturalmente il problema non è la malattia, ma l’assenza di risposte ad essa in termini di prevenzione, riconoscimento, diagnosi, cura e sperabilmente di guarigione.

Addirittura peggio dell’assenza di risposte, condizione plausibile nella fase precoce di un’investigazione, è l’assenza di ricerca. Che in questo ambito significa la ripetizione ed il consolidamento di paradigmi che identificano la malattia mentale come una lesione cerebrale (funzionale o anatomica), oppure che la assimilano ad uno dei possibili comportamenti “normali”, negandone l’esistenza: se siamo tutti un po’ malati, in fin dei conti non lo è nessuno. Chiuso il discorso.

Purtroppo, il risultato di questo irrigidimento del pensiero produce notevoli danni. Se da una parte incancrenisce la ricerca su un piano meramente neurogenomico e riduzionista (c’è ancora chi cerca la combinazione di geni responsabile della schizofrenia), oppure appiattisce la psichiatria sulla farmacologia e ad una pratica di riduzione del danno e di contenimento sociale, sul piano culturale e della consapevolezza civile, mantiene i disturbi mentali e le persone che ne soffrono in un ghetto di innominabili, dove regna lo stigma e la rassegnazione ad un’assistenza senza fine.

Le persone che hanno vissuto simili tragedie anche a causa del fatto che nessuno si è accorto del loro malessere, continueranno a vivere nell’isolamento costruito dal senso di colpa e dall’impossibilità di una cura che restituisca loro un futuro.

Ed è veramente interessante leggere l’inchiesta di Weingarten, quando racconta la storia di Raelyn Balfour, la “tempesta perfetta”, come viene chiamata dal consulente prof. Diamond.

Impossibile riportare qui tutti i dettagli, ma fa un certo effetto quando la donna, raccontando la tragedia vissuta, ricorda con tranquillità che il posteggio dove lasciò il figlio aveva accanto due posti vuoti; che non cambiò l’auto nella quale morì il figlio perché non avrebbe avuto alcun senso economicamente. Fa ancora più effetto quando la donna riporta i sogni fatti poco prima della tragedia. Interessante provare a comprendere come una storia possa avere in sé gli elementi, talvolta impercettibili, talvolta fin troppo evidenti, di un pericolo imminente. Nessun tracciato elettroencefalografico, nessuna neuroimmagine, nessuna alterazione di neurotrasmettitori.

Solo una storia umana.

A sessant’anni dai confronti furibondi che hanno portato alla formulazione della legge Basaglia ed alla ricerca vera sviluppata da quegli anni in poi, che ha reso l’Italia il paese più all’avanguardia nella salute mentale, è sconfortante constatare che riusciamo oggi a costruire solo società che ammalano; che ritrovarsi nella fragilissima condizione di malattia significa condannarsi ad un completo isolamento, anche in giovane età; che la banalità del pensiero con la quale vengono affrontati i segnali del malessere psichico costruisce a sua volta le condizioni affinché quel malessere diventi disturbo.

Se il pianeta Terra esprime il suo grido di allarme con lo scioglimento delle calotte polari e la sostenibilità ambientale richiederebbe una diversa concezione della vita insieme e dello sfruttamento delle risorse, la salute mentale delle persone soffre di una completa ibernazione della ricerca psichiatrica e di un grave arretramento culturale, esigendo una risposta di “sostenibilità” che consideri la riapertura del dibattito scientifico-culturale come una risorsa ineludibile. Ricerca, quindi, insieme ad investimenti nella qualità delle cure, nella formazione dei cittadini, nella bellezza degli ambienti nei quali le persone si ritrovano e costruiscono le loro vite. E lotta, senza quartiere, ai limiti che più o meno inconsapevolmente vengono posti alla conoscenza, altrimenti le parole dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per cui “non c’è salute senza salute mentale”, rimarranno solo un’eco lontano, evanescente ed inutile, come i consigli dei buoni padri di famiglia.

(*) Articolo di G. Weingarten sul Washington Post

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